L'uva e l'ozio

Di uva, ozio e autarkeia

La notte

C’è la notte, o meglio, ci sono le notti. Ci sono le notti di un’estate dove vespe e calabroni si sono fatti a vedere a fatica e ne sorrido, rassicurato, pur sapendo che forse non è un bene. Cosa diversa per le api, ne ho viste molte, questo è di sicuro un bene. Eppure dicevamo della notte, ossia il momento in cui calabroni, vespe, le stesse api riposano le ali e gli umani ne approfittano per distruggere i loro nidi, col veleno, col fuoco, senza riflettere sul fatto che questi esseri si portano dietro e porteranno avanti la loro memoria collettiva. I vivi ricorderanno perché sono morti i morti. Gli imenotteri, non gli umani, che con la memoria del nostro genere abbiamo questo scarso rapporto indebolito da secoli e poi anni di sterili ripetizioni. Dicevamo, della notte, appunto, come quel quando riusciamo a sospendere, forse non tutti, la frenetica rincorsa del cuore con il respiro, quando appunto proviamo a interrompere quell’assedio al tempo che abbiamo cominciato montando palizzate e barricate fin da quando siamo nati, senza neppur sospettare, poveri ingenui, che sarà per sempre il tempo ad assediare il nostro tempo, rivestendo quella parola “sempre” di un idiota mantello. La notte, sì, rassicurante, ancor più bella nella sua attesa che nella sua realtà, perché spaventa quando il rincorrersi non si ferma, avvolgente quando lasci la mano sotto al cuscino e tutto rallenta e tutto diventa una nave al largo dopo aver lasciato il porto, col suo motore che placidamente va al minimo ad affrontare le onde. Fino a quando all’orizzonte la prua adocchia l’approdo, il nuovo giorno, il mattino e i giri aumentano, sembra un affanno quello che porta verso la meta. Sì, la notte, e poi il giorno, il mattino. Le lenzuola si stropicciano per il rigirarsi di un corpo ansioso, tocca aprire gli occhi e tenerli a fessura perché la luce ci offende, ci ferisce e ci cattura. Il mattino torna a scandire il tempo che ci circonda e ci stringe in un fastidioso abbraccio che la consapevolezza delle cose che vanno fatte tramuta il fastidio in una stretta opprimente, troppo stretta, troppo stretta, troppo stretta. Il sonno e il sogno non riescono quasi mai a dare il necessario riposo. Al corpo, sì, certo ma è la mente che si sveglia già stanca e spossata, abulica, non ha più voglia di dare la caccia ai pochi calabroni e alle poche vespe che ancora volano e ronzano in questa fine estate. Ciò che la smuove dal torpore è solo la paura di questi pericolosi imenotteri, la paura di venir pinzato o meglio dovrei scrivere venir punto ma il trovare un punto, anzi, mettere un punto è proprio quello che porta sempre più allo stremo questa mente mai ferma, sempre attenta, troppo attenta, troppo attenta a tutte le curve che deve disegnare. Anche di notte, anche la notte.

Serenades

Irlanda-Inghilterra, Croke Park, Dublino, 24.2.2007

“Nothing matters, Mary, when you’re free
Against the famine and the crown,
I rebelled, they cut me down.
Now you must raise our child with dignity.”

Il rugby non è uno sport normale. O, forse, è lo sport più normale di tutti, perché divertimento e passione contano ancora. E contano anche i soldi, qualcuno dirà e l’unico commento possibile è “uh sì che contano, altroché se contano”. E sono tanti, tanti soldi. È anche un po’ per questo che la retorica sul rugby, la retorica del rugby, ha stufato, la nomea di sport puro ha poco senso a questo punto. Forse. Eppure. Eppure ancor’oggi hanno senso le storie, i racconti, gli aneddoti: basti pensare che film o romanzi sul rugby sono rari, questo perché il rugby stesso è racconto in tutto e per tutto. Ogni partita è una storia. E allora ben vengano tali racconti, ben venga la retorica del Davide irlandese che sconfigge il Golia inglese, come in questo caso. Intanto si tengano a memoria due date, il 21 novembre 1920 e il 24 febbraio 2007. Lasciamo da parte, per un attimo, la prima e partiamo dal 2007, anzi dal 2006, anno in cui viene chiuso lo stadio casa del rugby irlandese a Lansdowne Road a Dublino, che verrà poi demolito l’anno seguente per la costruzione del nuovissimo e avveniristico Aviva Stadium. Questa situazione costringe la nazionale irlandese a trovare una nuova casa ma a Dublino ci sono poche altre opzioni. La scelta cade quindi su Croke Park ed è una scelta ovvia, anche se c’è un evidente elefante nella stanza. Croke Park è la cattedrale della GAA, ossia la potentissima (relativamente) Gaelic Athletic Association, ossia la federazione degli sport gaelici quali hurling, camogie, calcio gaelico e altri. E sport, invece, inglesissimi, sono il cricket, il calcio e il rugby, divertenti trastulli degli odiati pavoni in bianco (e di questo ho avuto testimonianza diretta proprio davanti all’Aviva Stadium). Dentro Croke Park è bene che non mettano piede. 

La politica dello sport ma soprattutto l’economia dello sport fa però, diciamo, chiudere un occhio alla GAA e quindi viene concesso alla IRFU (Irish Rugby Football Union) che le partite delle edizioni 2007, 2008, 2009 e 2010 del Torneo delle Sei Nazioni possano essere disputate a Croke Park. Ma l’elefante nella stanza si dà una scrollata, l’occhio cade sul calendario dell’edizione 2007 che vede l’Irlanda ospitare l’Inghilterra alla terza giornata, programmata per il 24 febbraio. Apriti. Cielo. E giustamente, mi permetto di aggiungere. Buona parte dell’opinione pubblica irlandese vede con il sangue agli occhi questa possibilità, sarà mai possibile che la nazionale inglese metta i propri sudici piedi sul sacro terreno di Croke Park? Ma non è solo questo, c’è ben altro. Molto altro. È il momento di aprire il cassetto della memoria chiuso poco fa e andare a ripescare l’altra data menzionata poco più sopra. 21 novembre 1920. Croke Park è un monumento stesso al 21 novembre 1920, ossia la prima Domhnach na Fola. La Domenica di sangue. Bloody Sunday. Durante la mattina di quel giorno un’operazione dell’IRA, guidata da Michael Collins, lascia a terra 15 corpi tra soldati e agenti dell’intelligence britannica afferenti a quella che veniva chiamata Cairo Gang. La rappresaglia non si fa attendere e, come sovente avviene quando si tratta di eserciti occupanti, è spietata. Alle tre e un quarto, a Croke Park, viene fischiato l’inizio del match di calcio gaelico tra Dublino e Tipperary, il cui incasso sarebbe stato devoluto al Republican Prisoners’ Dependents’ Fund. 5000 sono sugli spalti, nonostante Dublino sia una città a tutti gli effetti in guerra. A ricordarlo agli spettatori sono i colpi che si sentono sparare dieci minuti dopo l’inizio della partita. Croke Park è circondato dall’esercito inglese che entra poco dopo sul campo svuotando i caricatori sulle persone presenti sugli spalti. Da fuori alcuni autoblindo con le mitragliatrici puntate tengono a bada chi sta cercando di sfuggire. Vengono uccise 14 persone. Tra loro “Mick” Hogan, il capitano della squadra di Tipperary. Tra loro Jerome, William and John William, rispettivamente di dieci, undici e quattordici anni. Una delle tribune dello stadio verrà intitolata allo stesso Hogan. Ma torniamo alle settimane ma anche ai mesi che precedono il 24 febbraio 2007, scandite dalle polemiche della stampa sportiva e non. Si discute se la partita potrà essere giocata, si discute se potrà essere suonato e cantato l’inno inglese. Viene persino modificata la Rule 42 del regolamento della GAA che preclude lo svolgimento di partite o eventi di sport non gaelici a Croke Park. Si va quindi avanti e allo stesso modo il protocollo del Sei Nazioni verrà rispettato. L’Irlanda ospiterà la nazionale inglese a Croke Park e God Save the Queen verrà scandito dalla banda, dai giocatori e dai sostenitori della nazionale della rosa in tribuna. Eccola, la partita. Sono le 17.30 e i riflettori sono accesi quando le squadre sono schierate a metà campo per la cerimonia iniziale. Gli spalti di Croke Park sono pieni in ogni ordine di posto, sono 82500 gli spettatori presenti e il cielo è coperto e plumbeo anche se qualche residuo sprazzo celeste ancora si intravede.

Le bande schierate dietro le schiene dei giocatori bianchi e verdi cominciano a suonare God Save the Queen e subito dopo parte il coro del pubblico inglese. I petti dei giocatori si gonfiano e le parole del canto vengono declamate con orgoglio. Il tutto però avviene in un’atmosfera sommessa e sospesa. Il pubblico irlandese e, immaginiamo, i giocatori vivono con tensione questo momento, con tensione e rispetto. Come questa signora tanti altri, quindi.

Termina l’inno inglese tra pochi applausi e passano solo dieci secondi prima di sentire un rombo salire dalle tribune. Le bande intonano, quasi sottomesse a tale rombo, Amhrán na bhFiann, la Canzone del Soldato, l’inno dell’Eire o Repubblica d’Irlanda e bastano pochi istanti perché il tutto si trasformi in un coro che declama Impazienti per l’imminente scontro, 

e come aspettiamo la luce del mattino, 
qui nel silenzio della notte, 
noi canteremo una canzone da soldato, 

ma anche la chiusa, 

Guarda ad est un bagliore argentato, 
fuori attende il nemico Sassone,
perciò canta una canzone da soldato.
 

Salta subito all’occhio che qualche giocatore in verde non canta, semplicemente perché questo è appunto l’inno della Repubblica d’Irlanda, non dell’Irlanda del Nord, dell’Ulster. Però qua siamo in un campo di rugby e, come abbiamo detto, le cose non sono normali o, forse, sono come devono essere. A rugby (ma anche a hockey e cricket) scendono in campo i giocatori dell’isola d’Irlanda che rappresentano le quattro province (Leinster, Munster, Connacht e appunto Ulster) e il protocollo sopra menzionato prevede che dopo Amhrán na bhFiann venga intonato Ireland’s Call. È un applauso fragoroso che irrompe dagli spalti quello che chiude il primo inno che a fatica si spegne in un carico silenzio che dura una ventina di secondi. Il vuoto termina quando le trombe, i rullanti e le grancasse fanno partire il secondo inno, quello dell’Irlanda unita. Tuoni distanti sembrano provenire dal pubblico che canta insieme ai giocatori e tuoni esplodono quando arriva la parola Ireland ripetuta due volte. Anche stavolta alcuni giocatori non cantano ma è la commozione che li frena, che spezza le parole in gola

Brian O’Driscoll, trequarti centro e capitano della nazionale del trifoglio, maglia numero 13,  sembra in trance. Uno dei più forti giocatori della storia di questo sport (tanto che viene coniato per lui lo slogan BOD is God) recita le parole senza cantarle. Anche lui, quasi sopraffatto dall’emozione, lotta per strappare le parole di gola.

La ripetizione del ritornello viene annunciata dalle trombe che salgono di un tono e stavolta è una sola voce che dalle tribune dalla terra dal cielo e dal mare d’Irlanda scandisce Ireland Ireland, stiamo uniti, spalla contro spalla risponderemo alla chiamata dell’Irlanda fino alla fine del canto, quando tra abbracci e battimani si scioglie, immaginiamo per poco, la tensione. Ireland’s Call può essere descritta benissimo da questa immagine di John Hayes, pilone destro e bandiera per tredici anni dell’Armata rossa, come viene chiamata la franchigia di Munster.

È giusto però vivere per quanto possibile tutto quello che ho umilmente descritto

Le bande escono, i giocatori si tolgono le sopramaglie e le riserve escono non senza aver incitato i compagni alla battaglia che comincerà a breve. Qualcuno si riscalda saltellando e correndo sul posto, qualcuno forse prega.

Poi, il fischio. Il primo tempo è equilibrato e non accade troppo, magari i giocatori sono ancora frenati dall’emozione. Il piede fatato di Johnny Wilkinson apre le marcature dopo due minuti con un calcio di punizione. Pareggia O’Gara al sesto e fino al ventesimo minuto è la guerra di trincea tra i pacchetti di mischia. Poi segna nuovamente il 10 verde su punizione e qualcosa cambia. O’Gara segna nuovamente al 26° e poi è l’estremo Dempsey che sfrutta un vantaggio sulla destra aperto dopo una touche e una segnatura evitata per pochi centimetri dalla difesa inglese. Meta. O’Gara trasforma ma è evidente che nelle menti, nelle gambe e nelle braccia dei giocatori irlandesi è scattato qualcosa. Passano forse cinque, sei minuti e sono Stringer e la terza ala Wallace che rubano il pallone uscito malissimo da una scrum con inserimento inglese. Ripetizione quindi della mischia chiusa stavolta con Stringer che mette dentro la palla, la stessa viene tallonata in un blitz ed è lo stesso mediano ad aprire a Horgan. Ruck, Stringer alza la palla quasi senza guardare ed è Wallace, la stessa terza ala menzionata poco prima ad arrivare come un treno, ricevere il pallone e sfondare la difesa bianca (tre giocatori…) con testa e spalle. L’intervento del TMO non può che sancire la meta. Sono passati a fatica trenta secondi dalla mischia ribaltata e l’Irlanda è già nuovamente in meta. La squadra verde si è trasformata in una belva assetata di sangue, perfettamente organizzata, completamente fit dal punto di vista atletico ma con qualcos’altro che non ci è dato comprendere ma che è evidente. I 15 in verde sono letteralmente delle furie. Trasformazione e si va all’intervallo sul 23 a 3 per la squadra di casa. Al rientro in campo è nuovamente O’Gara a mettere altri tre punti sul tabellino dopo tre minuti ma l’ala inglese Strettle marca una meta al minuto 46, ovviamente convertita dal calcio di Wilkinson. 26 a 10 e l’Inghilterra quindi non è morta. Nuovamente l’apertura inglese calcia una punizione e il margine si riduce a tredici punti. Passa però un minuto e nuovamente O’Gara riaggiusta il risultato sul 29 a 13. Siamo arrivati a 57 minuti sul cronometro. Poi. Poi è il turno degli dei del rugby che quella sera erano tutti con la maglia verde. Passano sei minuti e c’è una mischia chiusa a favore dell’Irlanda sulla sinistra. Siamo a cinque metri dalla linea di meta. La palla viene raccolta dalla terza centro Leamy che mette il caschetto e la testa tra le spalle e sfonda uno e poi due giocatori cadendo a due metri dalla linea di meta. Il sostegno e le guardie difendono la ruck dalle terze ali bianche e accorre Stringer, forse indemoniato come spesso era, a raccogliere il pallone. Apre a O’Gara, due passetti e in un solo movimento abbassa le braccia e tira indietro il piede destro. Parte una parabola fatta col pennello mentre dal corridoio di destra comincia la sua corsa Horgan. La corsa finisce in piena area di meta con la potente ala irlandese che raccoglie il pallone a marcare la terza meta per la sua squadra. Il match terminerà 43 a 13 e ci saranno, dopo la meta di Horgan, la trasformazione di O’Gara e poi l’ultima meta di Boss convertita da Wallace. Però è l’azione della meta di Horgan che è un racconto di per sé. Un’azione di quel tipo con l’apertura al piede è oramai diventata un fondamento del rugby contemporaneo ma non poteva non ricordare qualcosa in quel momento, durante quella partita, in quello stadio, a Dublino. Il passaggio al piede in avanti è una delle azioni tipiche del gaelic football, basta guardare un video di highlights di qualsiasi partita di questo sport per averne la dimostrazione. Il calcio di O’Gara avrà riportato alla mente di tanti questo tipo di azione, “Mick” Hogan, per l’occasione ospite degli dei del rugby sarà saltato in piedi nel momento in cui il piede di Ronan inizia la sua curva e sarà finito abbracciato ai suoi amici quando Shane riceve la palla in meta. Quando tutti saranno usciti dallo stadio abbracciati, tristi, sorridenti o arrabbiati, rimarranno tre bambini nelle strade intorno a passarsi un pallone. Con le mani, con i piedi, come vorranno. Grazie per aver seguito questo lungo racconto, sperando di non aver annoiato nessuno. Avevo solo bisogno di spiegare perché indossare la maglia verde col trifoglio sul petto, almeno per me, non è una cosa normale.

Saluto lasciando gli highlights della partita

https://youtube.com/watch?v=YS4AfMflkOk&t=184s…

Immagine

Le scale

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Ascoltami. Ascoltami. Se alzi gli occhi riesci a vedermi, sono quassù, su questa scala. Ascoltami. Non riesco a scendere, non so se voglio scendere e allo stesso tempo non voglio che tu salga fino qua. Vorrei chiederti di allungare la tua mano verso di me senza poi sapere a quale scopo, se davvero tu riusciresti ad aiutarmi oppure se questo rimanesse un gesto a mezz’aria, due mani ferme che si sfiorano, magari si stringono, si sfuggono e scambiano calore e sudore. Eppure provo ad allungarmi io verso di te, ritraendomi subito dopo, impaurito dalla possibilità della caduta, dal dolore dell’impatto o più semplicemente dall’ineluttabilità di tutto ciò che accadrà dopo, tutto quello che accadrà ugualmente, anche se non mi sporgessi verso di te. Allora ti chiedo solamente di ascoltarmi, di fermarti un attimo sul primo scalino. Mettiti pure a sedere, mettiti comoda perché ho molte cose da dirti e dovrai solo interrompermi per farmi riprendere fiato, temo che una valanga di parole usciranno dalla mia bocca e appunto vorrò fermarmi solo per respirare. La valanga diventerà tempesta dopo esserlo stato dentro di me. Tu, ascoltami.

Taijin Kyofusho

Canzone del mattino 3