L'uva e l'ozio

Di uva, ozio e autarkeia

Categoria: La porta

Dagli angoli

Gabriele Basilico

Gabriele Basilico

spegniamo tutto, restiamo soli, non pensiamoci più

Da grande avrei voluto rompere bottiglie di vetro e metterne i pezzi sopra i muri. Le parole, così, non sarebbero riuscite a raggiungermi e avrei potuto osservare i miei pensieri zampettare tranquilli sopra quei vetri appuntiti. Perché loro, i pensieri, non possono tagliarsi con i pezzi di vetro. Io stesso avrei avuto paura di rompere le bottiglie e seminare i pezzi di vetro. Però, dopo aver finito il lavoro, avrei appuntato la paura sulla mia agendina per poterla eventualmente usare di nuovo più in là. È giusto che ognuno possa scegliersi la propria paura, per potersi così disegnare il volto e le mani. Di certo lui quella paura non se l’era segnata quando è venuto a parlarti e ti ha detto che non poteva averla annotata. Tuttora non capisce il perché non avendo mai fumato e bevuto pochissimo. Tu gli rispondevi che basta mangiare, vivere e respirare per ritrovarsi scritta la k, sì, la lettera, nient’altro che una lettera, scritta su foglietti rossi e bianchi. Ma ora, mentre mi pulisco le mani con un pezzo di stoffa sporco, togliendo i cristalli che mi son rimasti nelle pieghe e negli angoli della pelle e quelli più verdi sono quelli che danno più fastidio, perché non ha un motivo per essere più fastidiosi, tu provi a parlarmi raccontandomi dei denti di lupo che una volta hai trovato nel bosco. Le tue parole cadono a terra e io non posso far altro che raccoglierle e lanciarle oltre il muro dove ho messo i pezzi di vetro. È bene che stiano di là, che ci restino per un po’, perché le parole rimaste in terra rischiano poi di germogliare e fare alberi quando, invece, sono solamente lettere, righette e lineette. Quindi è necessario dare meno importanza possibile alle parole, a tutte le cose che si dicono senza pesare ma anche a tutte le cose che si dicono e basta. Quindi forse mi capisci, se vedi che senza ascoltarti troppo, ma solo un poco, mi piego e piego il braccio per gettare via le parole. Capisci quindi che il silenzio spesso è necessario, che non sempre c’è bisogno di avere un’opinione, un consiglio e condividerlo con chi si ha di fronte, incurante del fatto che il suo anno brutto è cominciato solo tre mesi prima del dovuto. Così anche io resterei in silenzio, senza dover per forza riempire i vuoti che la norma vorrebbe sempre occupati dalla certezza e dalla verità. E, invece, io non ce la faccio a parlare con leggerezza di tutto quello che è più grande di me, di tutto ciò che non posso controllare semplicemente perché non ho scelto, tra gli anni e i mesi possibili, proprio questi che mi ritrovo nel cassetto delle due case che ho. Tutto questo sarebbe successo davvero se da grande avessi potuto rompere bottiglie, metterne i pezzi di vetro sui muri e oltre a quei muri avessi potuto confinare tutte le parole che non sopporto e che invece sono costretto a condividere. Ora, che sono grande, ripenso che non ho fatto nulla di tutto ciò e quindi non posso far altro che continuare a togliermi le briciole di vetro verde dalle mani con uno strofinaccio. Certo non posso farlo spesso ma spero che questo poco mi basti.

Blindsided

2.7.2014

 

Noi, le rose

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Peter Saville

“Help me through this”

Ho spezzato, macinato e triturato i denti che ho sognato negli anni passati. La polvere che ne ho ricavato l’ho setacciata e l’ho versata in una bottiglia piena d’acqua, per annaffiare le piante che stanno nel giardino. So che un giorno, all’alberello di rose gialle bianche e rosa che crescerà proprio nel mezzo del giardino, attaccherò con spago, o con un ramo verde di ginestra, un foglietto dove precedentemente avrò scritto che senza il bene non può esistere il male o, perlomeno, non può esisterne la consapevolezza, la coscienza stessa, del male. Non avevo scritto quelle parole con la penna. Avevo ritagliato le singole lettere di tutte le parole dalle pagine di un giornale dove avevo letto, appunto, di una persona che soffriva dello stare bene. Si sentiva in colpa per stare bene e sentire il dolore, il male, era per lui più corretto. In passato ha provato a godere e approfittare di tutto ciò di bello che gli capitava eppure cercava di non sorridere troppo. Non che non sentisse di meritare il bene. Diceva che era meglio essere sempre preparati al male e se non al male al peggio, per quanto possibile. Eppure, nonostante questo, noi, e lui, presentavamo gli stessi fiori a chi stava fuori da casa nostra. Altri, siepi, muretti, reti, ringhiere. Noi, le rose. Adesso il muro è qua davanti, davanti a me. Insormontabile e incomprensibile, nella nebbia avvolto per non mostrare non tanto il futuro, quanto l’attuale minuto che scorre e che spesso sfugge al pensiero, al sogno e al sonno. Provo a contare all’incontrario partendo da novanta, come la paura, e sorrido quando sento che le tempie si distendono, che il morso dei denti si allenta. So che nessuno vedrà quel sorriso, tantomeno M. che è lontana, accanto a me. Quando allento il morso immagino, forse vedo, attraverso le palpebre, improbabile possibili pronostici uscire dalla gola per andare a incastrarsi tra i pezzi di legno della persiana. Rimarranno lì fino al mattino, fin quando aprirò la finestra a far uscire la notte sicura facendo così entrare di nuovo la realtà, il muro insormontabile e incomprensibile che se ne sta lì come un clandestino che trovi a bordo senza che nessuno ti abbia avvertito. E pensare che a tutti, anche al clandestino, abbiamo offerto rose, le abbiamo mostrate loro e chi le ha volute se le è prese. Quando qualcuno non ci sarà più, dovrò continuare ad accudire le rose, annaffiandole con acqua e polvere di denti sognati. Perchè tutti possano ricevere un fiore da noi.

Pictures of You

7.6.2014

I penultimi passi

Caprimulgus

Odio la luce del mattino che occhieggia da fuori, ponendo limite alla notte. Non avevo ancora finito di arringare le folle, di incitare i miei eserciti e di urlare la mia rabbia dall’altro dei promontori delle mie paure e già devo adeguarmi alla normalità del giorno. Sorge il sole e la roccia su cui appoggio i miei piedi brilla, rispecchia la luce forte e gialla. Adagio se ne vanno via le persone che mi ascoltavano fino a poco fa. Chi in silenzio, chi parlottando a bassa voce con il vicino. Per pochi secondi penso, anche, che, forse, dovrei richiamarli indietro chiedendo loro di continuare ad ascoltarmi. Poi rinuncio, sono di girati di spalle e i primi, quelli più in fondo, se visti dalla mia prospettiva, sono oramai già lontani. Esito, non riesco a decidermi se anche per me è giunto il momento di lasciare questo sasso e scendere la china, cercando di non inciampare sui ciottoli più o meno appuntiti e magari ritrovarmi a rotolare fino in fondo. Ho sempre preferito la salita alla discesa e riconosco che la mia è una predisposizione quasi più muscolare che intellettuale o spirituale. Provo a quindi a contare i respiri mentre scendo, come mi è stato consigliato. Non funziona per calmarmi e per avere meno paura della discesa. Provo quindi a distrarmi seguendo il volo di un falco. Lo riconosco dalle ali, dalle punte delle penne delle ali che rimangono sempre rivolte verso l’alto. Forse sta cacciando e forse mi sta guardando. Di sicuro mi sta vedendo, da qui capire se è interessato a me mi è impossibile. Continuo a scendere, quindi, mentre il volatile si allontana, continuando a girare intorno alle nuvole lassù in alto. Continuo a scendere e provo ad attirare la sua attenzione, prima fischiando, poi gridando vocali. Infine, provo a chiamarlo con parole a caso, che hanno senso ma non in questo momento. A una parola sembra voltarsi di nuovo verso di me, approfittando forse della curva che sta facendo in aria. Di certo gira gli occhi verso di me, lo vedo. Non si avvicina. In effetti la parola che ha attirato la sua attenzione è brutta perché le consonanti che si scontrano in essa sottolineano il significato tremendo che ha. Peggiore della fine c’è solo la strada che porta verso la fine. Il falco si è definitivamente allontanato e io decido finalmente di arrivare in fondo alla discesa. Il sole è già alto e ho da fare, lasciando da parte la stanchezza per i comizi notturni. Anche per oggi, invece di guardare qualcuno dall’alto in basso sorridendo come l’età e i programmi avrebbero voluto, devo di nuovo accompagnare i suoi penultimi passi.

A Song to Our Fathers

12-28.05.2014

Un manifesto

Gipi

e così veniamo avanti simili in tutto a quelli di ieri

Quando cammino mi fermo se i semafori, quelli per le macchine, sono rossi. Mi fermo perché se non mi fermassi mi sentirei in colpa nel non poter dare alle virgole l’importanza che esse meritano. Le virgole non possono essere messe con leggerezza. Vanno distribuite come zucchero a velo dopo che la pagina si è raffreddata. Queste per esempio, le ho fatte cadere come le braccia che non offrono resistenza alcuna ad alcuna forza di gravità che, come si sa, niente ha a che fare con la stupidità. La stupidità che ti delude, come quella di quando mi guardo allo specchio sotto la doccia, senza riuscire a vedermi. Provo spesso a guardarmi allo specchio che sta sotto la doccia, solo che non ho uno specchio sotto la doccia e quindi posso vedermi. Ma se mi vedessi, mi troverei invecchiato, con i capelli più bianchi e più radi e una barba che si ostina a non occupare i centimetri di pelle che dovrebbe. Come se sulla pelle fossero state distribuite virgole a caso senza un costrutto, senza uno schema. Mi delude la stupidità, quella dei riti imposti, dei meccanismi necessari allo svolgimento di una società che molte volte non sa spiegarsi eppure è la realtà quotidiana, ossia tutto ciò che avviene senza che ci sia motivo, magia, appunto o appunto spiegazione. Mi delude più ancora la stupidità derivante dall’ignoranza. Allo specchio, oltre ai miei anni trascorsi, ho cercato il tragitto che faccio ogni mattina per andare a lavoro perché se mi tocco la tempia con il dito non ricordo qual è la strada che ho fatto. Ricordo di aver incontrato un uomo che corre, magro e con la barba, chiedendomi come fa ad avere la voglia di correre a quest’ora di mattina. Un altro uomo, abbracciato alla sua Maria. Ridono entrambi e lui le tocca la pancia. Ricordo le persone che ho incrociato ma non il marciapiede che ho lasciato per attraversare la strada. Ricordo di essermi fermato a leggere il manifesto che era stato affisso alla bacheca del Partito, quella sotto i portici. Oltre alle parole che mi aspettavo di trovarci sopra, ho letto una lista di scuse. Nell’elenco delle scuse che non mi hai mai chiesto ma che io ho elencato ho trovato scritto che mi mancherebbe il mare. Delle tue scuse, invece, niente mi è pervenuto. Magari un giorno ci ritroveremo insieme a leggerlo questo manifesto, insieme. Se la pioggia non lo porta via, se nessuno lo avrà staccato perché la vita va avanti. Vedremo. Il futuro, quello dei giorni a venire, quello delle nostre ore contate. Vediamo. Quando uscirò da lavoro farò la strada inversa e anche se non ricordo la strada che devo fare sono certo che mi ritroverò davanti allo stesso semaforo e, se sarà rosso, avrò come spesso accade un’esitazione. Mi distrai dall’esitazione e dalla luce rossa arrivando con la tua auto. Diciamo le nostre stupidaggini come sempre e facciamo i cretini. Quando sarai ripartito, dopo che il semaforo è diventato verde, farò lentamente scemare il sorriso sul mio volto e comincerò a riflettere sul fatto che stiamo semplicemente tentando di riprenderci il tempo che abbiamo perso da bambini, nient’altro. Sperando che il tempo abbia la pazienza, poi, di aspettarci.

Liberty Bell

7-21.2.2014

A curva da estrada

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to understand, I must become the fear

Prima che faccia buio devo ricordarmi di guardare oltre la curva della strada, dove una volta non riuscivo a vedere con i fari della macchina che mi veniva incontro negli occhi. Le auto e i loro conducenti non abbassano, mai,  i fari quando mi incrociano e io sono a piedi, lo fanno solo se mi incrociano alla guida della mia auto. Ciò accade soprattutto nei giorni di pioggia e, ormai, qua sono settimane di pioggia in cui mi ritrovo spesso a essere dispiaciuto per il sole, per il sole e per il foglio di carta che rimane bianco davanti a me. Provo, ogni tanto, ad avvicinare la punta della penna ma non vado oltre a poche linee e qualche scarabocchio. Ogni volta che stacco la penna dal foglio, dagli scarabocchi, dalle righe, avverto il bisogno di ricominciare da capo ma scuoto la testa quando mi rendo conto che non ne ho voglia. Non stavolta, no. Il cane che si è messo qualche minuto fa sdraiato accanto alla sedia alza la testa e mi guarda. Gli chiedo cosa c’è e lui riabbassa la testa e chiude gli occhi. Fino a pochi mesi fa aveva paura di qualunque cosa, il cane, come se temesse di venire abbattuto da un’ombra di passo. Adesso la situazione è migliorata, non ha più così paura di me e l’osservare ciò che sta accadendo non fa altro che distogliermi dallo scopo che mi ero posto, ossia scrivere. Scrivere oggi, non domani e nemmeno fra una settimana. Sedermi alla scrivania e riuscire a lanciare un filo nella mia testa aspettando che le parole si aggancino al filo. Per poi tirarlo su di nuovo e stendere le parole ad asciugare su della carta più o meno assorbente. L’importante è che sia bianca. Ecco, questa cosa che fino a pochi mesi fa era un delle cose più semplici, adesso, adesso, ha una difficoltà tremenda, mi pesa e mi strappa, se mi fermo a pensarci. Infatti mi fermo, e vorrei non pensare. Anche senza pensare sento il filo e i ganci pesare e grattare contro le pareti della mia testa senza raccogliere nessuna parola, nemmeno una lettera. Rimangono agganciati, strappati dai nodi della mente, ricordi e futuri possibili, anzi probabili, e ho paura di tirare il filo e raccogliere nelle mani quello che il filo ha raccolto. Per poi doverne sentire l’odore, che di sicuro non mi piacerà, per la consistenza di quei tempi passati e prossimi. Per il timore di dovermi rendere conto, una volta per tutte, che non c’è niente di più impietoso della vita stessa, degli anni negli anni degli anni, ma solo in quelli nostri. Certo, è vero che potrei alzarmi da questa sedia, uscire e mettere dell’inchiostro blu nell’acqua che uscirà dai rubinetti. Oppure fotografare le foglie e poi lasciare le foto sugli autobus che non prenderò mai più, perché tanto ci sarebbe stata una prossima e un’altra volta. Salirò su quell’autobus, poserò una foto sulla poltrona e scenderò. Sono sicuro che troverò le scuse per non fare niente di tutto ciò e mi limiterò a prendere un libro e buttarlo nel camino, vederlo bruciare e così scaldandomi per asciugare le ossa. Brucerò anche altri libri. Prima quelli che non mi sono piaciuti poi quelli che amo, a cui sono più affezionato. Quelli che non brucerò saranno i libri che non ho scritto e che non scriverò. Ai quali però tengo più che a questa pioggia che non può essere altro che necessaria.

Ravedeath, 1972

15.1.2014-5.2.2014